23
Feb
2018
News

Una strategia per l'economia del mare | Editoriale di Massimo Deandreis sul Sole 24 Ore

Pubblicato sul Sole 24Ore del 23 febbraio 2018 l'editoriale di Massimo Denadreis, Direttore Generale di SRM, che si concentra sull'Economia marittima e sulla forza di questa "filera lunga" spesso però dimenticata. E’ curioso constatare che un Paese come l’Italia, con oltre 7.300 chilometri di costa, immerso nel Mediterraneo, da sempre storicamente legato alla dimensione dei commerci e degli scambi via mare, ha così poca attenzione verso una delle sue filiere principali: quella dell’economia del mare. Come anche gli studi e le analisi di SRM hanno mostrato, si tratta di una filiera lunga, non solo perché attraversa da Nord a Sud il nostro Paese sui due versanti tirrenico e adriatico ma anche perché tocca due diverse dimensioni. Quella di terra, con le attività di cantieristica navale, logistica e attività portuale. E quella di mare, con lo shipping, il trasporto di passeggeri, il crocierismo e le altre attività armatoriali.  A questo nucleo, che ruota attorno alle attività dei porti, si aggiungono altri segmenti: la pesca e la produzione ittica, il diportismo e tutto ciò che ruota intorno al turismo balneare. Certo parliamo di fette di economia diverse tra loro ma che hanno tutte in comune di ruotare intorno al mare e all’attività logistico-portuale. Le componenti più forti sono la cantieristica che produce 7 miliardi di euro di valore aggiunto e ha consistenti potenzialità di crescita (anche grazie al ruolo primario di un attore di livello globale come Fincantieri, ora più che mai dopo l’accordo con STX France), il trasporto marittimo che genera un valore aggiunto di 8 miliardi di euro, il turismo legato al mare che raggiunge i 13,5 miliardi di valore aggiunto. Questi tre comparti, da soli coprono il 64% della filiera. Se aggiungiamo poi le altre componenti minori per dimensione (ma non certo per importanza settoriale) e guardiamo tutto questo nell’insieme della filiera marittima che si dispiega lungo le coste italiane da Ventimiglia fino a Trieste, ci accorgiamo che complessivamente questa filiera supera i 44,4 miliardi di euro di valore aggiunto,  presenta quasi 200.000 imprese attive e occupa circa 900mila persone. Parliamo di un pezzo molto consistente dell’economia del nostro Paese. Tutto questo senza poi contare che i porti e il commercio marittimo muovono oltre 221 miliardi di euro annui di interscambio commerciale italiano di cui 113 miliardi di import pari al 51% del totale e 108 miliardi in export, il 49% del totale. Cioè l’economia marittima è una filiera che a sua volta fa “muovere” le filiere industriali. Nonostante questa evidente rilevanza, finora non c’è stata una strategia d’insieme, è prevalsa invece una visione parcellizzata. Tra localismi e regionalismi da un lato e le divisioni schematiche tra industria e terziario dall’altro, è mancata un’azione che desse ragione dell’importanza complessiva di queste attività e fosse d’impulso per rafforzare e sviluppare i legami tra le varie componenti in una logica di mutuo beneficio, come pure avviene per altre filiere, dove questa strategia sta mostrando i suoi effetti positivi. Ne è un esempio la filiera della “salute”; la cosiddetta “white economy” che vale all’incirca l’11% del Pil ed ha il vantaggio di essere anticiclica. Qui, anche grazie all’azione coesa e sinergica delle Associazioni confederali che rappresentano le varie categorie della filiera si sta tentando di far accrescere la consapevolezza del valore, delle potenzialità e del contributo all’economia del Paese. E’ forse giunto il momento che anche sull’economia marittima, la "Blue Economy", si provi a seguire questa strada. La positiva riforma dei porti attuata dal Governo sta iniziando a dare i suoi frutti. Si è finalmente introdotta una visione del porto non più solo come luogo di arrivo e partenza delle navi, bensì come centro economico attorno a cui può ruotare l’intera economia di un territorio e una parte rilevante delle attività produttive export-oriented. E’ questa anche la logica delle ZES, Zone Economiche Speciali, che attraverso agevolazioni fiscali e burocratiche hanno l’obiettivo di rilanciare i porti del Mezzogiorno trasformandoli in attrattori di nuovi investimenti produttivi. Il modello a cui tendere in termini di standard e organizzazione, è quello dei porti nord europei come Rotterdam, Anversa, Amburgo e Brema e anche di alcuni porti del Sud Mediterraneo come Tanger Med dove l’attività portuale è intermodale ed integrata con quella industriale e con i poli di ricerca. Questo percorso, pur solo all’inizio, è avviato anche da noi; per questo è ora il momento giusto di pensare a rafforzare i legami di filiera tra tutte le componenti che costituiscono l’insieme dell’economia marittima. E su questo processo il Mezzogiorno può dare un contributo particolarmente rilevante. Ricondiamoci che le 7 Autorità di Sistema Portuale presenti nel Sud gestiscono il 46% del traffico dell’Italia. Il valore aggiunto generato dall’economia marittima nel Mezzogiorno è pari a 14,7 miliardi sui 44,4 totali e la parte core di cantieristica e trasporti copre il 23% del totale. A questo si aggiunge il posizionamento geo-economico del Mezzogiorno al centro del Mediterraneo che offre, oggi, più che in passato, rilevanti opportunità grazie al raddoppio di Suez, la crescente presenza cinese e le opportunità che arrivano dal continente africano.  Proprio dal Mezzogiorno e dai suoi attori chiave nell’economia marittima potrebbe partire questo processo. Occorre comprendere che rendere questa filiera più coesa e unita rafforzando i legami tra le sue diverse componenti, produrrebbe un rafforzamento del ruolo che l’Italia può esprimere in questo segmento e ci renderebbe più capaci di giocare la partita geo economica che si gioca nel Mediterraneo da veri protagonisti e a vantaggio di tutto il Paese.
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